WHITE FACES REFRAMING MEMORY

di GIACOMO AMBROSINO (ISIS Magrini-Marchetti) 

Negli ultimi anni della guerra Iran-Iraq (1980-1988), il regime Iracheno pianificò un genocidio contro il popolo curdo e altre minoranze del nord dell’Iraq chiamato Al-Anfal: le persone venivano radunate in comunità separate, spedite in campi di concentramento, fucilate, violentate. Ci fu anche la resistenza al regime, i Peshmerga: i soldati del governo rastrellavano le case in cerca di legami delle famiglie con questi ribelli. Molti civili (specialmente le madri) per salvarsi distrussero la maggior parte delle fotografie, che potevano essere compromettenti. Ne è un esempio la foto di un bambino, nato sotto l’ombra del dittatore Saddam Hussein e di una guerra, che appare felice in una foto giallo ocra. Però è solo un angolo di immagine: si vedono i segni del passaggio di una lama.

E’ ciò che è rimasto dell’infanzia del curdo Yadgar, quel bambino, che nella sua vita è scappato dall’Iraq, si è laureato in Arte contemporanea in Inghilterra, vive in Italia e ha in mente un progetto. Lui è sopravvissuto allo sterminio del suo popolo, i Curdi, ma non all’oblio delle memorie familiari che è stato conseguenza dello sterminio. L’opera che Yadgar sta portando avanti serve esattamente a riportare alla luce tutto ciò che non è ancora andato perduto, bruciato o stracciato: quel che raccoglie sono le fotografie, memorie tangibili di un popolo dimenticato. White Faces Reframing Memories nasce proprio dalla volontà di Yadgar, che all’epoca aveva 4 anni, di ritrovare tutto ciò che fosse rimasto della sua famiglia e di raccontarlo al mondo, per far capire non solo l’angoscia di quegli anni e la tristezza di non avere una memoria familiare, ma anche quanto siano importanti le immagini che tutti noi conserviamo da qualche parte e diamo quasi per scontate.

Lo spettacolo, che vede la fotografa Linda Dorigo alla regia, racconta le storie legate a 4 foto, ritrovate da Yadgar nella sua ricerca, le quali mostrano alcuni spaccati di vita degli anni ’80 in Iraq. Queste storie vengono raccontate da Yadgar stesso, che coraggiosamente decide di narrare in Sorani, la lingua curda (alternandola all’inglese).

La performance è stata proposta in versione definitiva nella moschea di Tor Pignattara a Roma, per poi essere replicata in varie occasioni, inclusa quella di Gemona, il 2 dicembre scorso, grazie all’organizzazione della Bottega del mondo.

E’ uno spettacolo introspettivo e coinvolgente e, per chi è abbastanza sensibile, addirittura angosciante, se si comprende che quegli spaccati di vita sono fotografie scattate sotto una dittatura: basta pensare alla foto di Yadgar da bambino, un’immagine naturale e allegra come molte altre simili negli album di tutti noi, nella quale però compariva un kalashnikov per cui era stato necessario tagliarla. L’unica cosa che ha salvato il volto del curdo è stato l’amore di sua madre.

A rendere il tutto ancora più magico sono le note mediorientali di Mehdi Limoocchi, che, insieme alla voce di Yadgar, sembrano trasportate in un’atmosfera da “Le mille e una notte”. Un ulteriore colpo al cuore è il momento in cui Yadgar, ogni volta che finisce di narrare una storia, sceglie delle persone dal pubblico per ricreare le fotografie mostrate e scatta una foto con una Polaroid, il cui suono tipico segna la fine del racconto. Io sono stato partecipe di una di queste rievocazioni, ed essere stato trasportato in quella situazione e in quel periodo storico a partire da una ‘semplice’ foto è stata un esperienza unica che consiglio veramente a tutti per cercare di capire le sofferenze e la paura di un popolo. Un curdo non potrà mai mostrare allegramente le foto di lui da piccolo come facciamo tutti noi, né potrà mai raccontare attraverso delle immagini qualche occasione speciale della sua famiglia o spiegare dettagliatamente la situazione di quel periodo con delle immagini. Quindi la prossima volta che postiamo un selfie o una foto, non facciamolo con frivolezza: è una traccia del nostro esistere.

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