Se la volontà di imparare non basta

di Michele Faleschini 5A

Sono sempre di meno, in Italia, gli “eroi” che osano iscriversi ad un’università; 70.000 in meno rispetto a 15 anni fa, circa il 15% degli Italiani adulti, mentre, nei paesi OCSE, la percentuale è più che raddoppiata. Complice la crisi, la voglia di studiare decresce inesorabilmente. Sarebbe però il caso che proprio chi ritiene l’università un inutile spreco di tempo e di denaro, chi preferisce un lavoro qualunque ‘oggi’ -a trovarlo!- a un’occupazione ambita ma incerta ‘domani’, chi quindi crede che il tempo dello studio e degli atenei sia finito, torni a studiare.



Una tappa obbligatoria per i “nemici dello studio” è Leopardi, che proprio su questo tema ci dà una lezione importante oltre che attuale: “solo chi sia dottissimo è atto (adatto ad) accrescere e condurre innanzi il sapere umano”, scriveva nell’operetta morale Dialogo di Tristano e un amico. Che cosa c’entri questa frase con la poca voglia di studiare dei giovani italiani di oggi, è presto detto. Questa crisi economica e quella –ben più lunga- culturale hanno instillato nelle nostre menti la convinzione che impegnarsi a fondo e mirare alto sia inutile. Noi, figli della crescita, nel momento in cui questa e venuta a mancare, abbiamo sviluppato un rifiuto per ogni idee “astratte”, come quelle di conoscenza e moralità, per abbracciare tutto ciò che ci appare come più “concreto”, un lavoro qualunque, appunto, ma anche uno smartphone, un paio di scarpe… Complice la nostra paura del futuro, abbiamo abbassato gli occhi dall’orizzonte, per osservare solo quello che ci sta attorno e che ci serve ora. La svalutazione dello studio, impegno a lungo termine, visto come antico e inutile, diviene inevitabile. Ma così si perdono laureati, scienziati, studiosi; la nostra società è un recipiente forato, nel quale il sapere e la cultura sgocciolano pian piano da ogni foro, provocato a sua volta da ogni cervello che se ne va, da ogni ragazzo che lascia la scuola o che non prova a continuare e che quindi non si mette in gioco.
Come cominciare a riempire di nuovo questo recipiente, contenente il seme del progresso, la cultura e la conoscenza di una nazione, ce lo spiega appunto Leopardi: senza uomini “dottissimi”, senza qualcuno che con lo studio approfondito possa guardare avanti, il progresso non c’è. Solo chi è più dotto può “condurre innanzi il sapere umano”. Questi dottissimi sono appunto persone con un bagaglio culturale e conoscitivo molto ampio, acquisito con lo studio e la fatica. Dotti si diventa, non si nasce.
C’è chi potrebbe obiettare a Leopardi che la nostra è una società veloce, dove grazie a internet il sapere è alla portata di tutti, e che con un click si può accedere ad infinite informazioni; il sapere oggi è “sociale”, tutti sanno di più rispetto al passato, anche senza un grande studio alle spalle. Il lungimirante poeta aveva previsto però anche questa obiezione: le conoscenze, scrive Leopardi, “non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano […]” perché  “dove tutti sanno poco, si sa poco”. Sapere superficiale, informazioni non approfondite (tipiche dell’era di internet appunto) non bastano a salvarci dalla crisi. La conoscenza è portata avanti solo da chi prova a salire su un gradino più alto e che a guardare più lontano-. E quindi anche la scienza necessita di scienziati “dottissimi”,  dato che “non si sparpaglia” su tutta la popolazione, come possono fare invece le ricchezze.
Impegnarsi e osare sono le parole chiave. Non basta avere fame di sapere, bisogna nutrirla, perché la curiosità da sola non basta. Già nella sua epoca (prima metà dell’800) Leopardi osservava che “quanto (più) cresce la volontà di imparare, tanto scema quella di studiare”. Riflessione quanto mai attuale per un’epoca come la nostra in cui, seppur circondati da mezzi sempre più efficienti, la conoscenza rimane per la stragrande maggioranza superficiale e i dotti son sempre meno.
Noi italiani in particolare dovremmo capire la lezione di Leopardi: un recente studio, condotto dall’Ipsos, ha stilato una classifica dei paese con la popolazione più ignorante –che ignora ciò che accade nel proprio paese e nel mondo-. Guarda caso la medaglia d’oro spetta a noi: non solo il sapere profondo ma anche quello superficiale sembrano assottigliarsi sempre di più. E il discorso è estendibile anche alla classe politica, la cui preparazione culturale odierna non è minimamente paragonabile con quella di 50 anni fa. C’è bisogno di menti illustri, di “veri dotti” direbbe Leopardi.
Certo, è vero che oggi chi avesse la voglia di studiare, non è agevolato dalle condizioni economiche, nonostante i mezzi sempre più efficaci. Anche per questo, però, la parola d’ordine è osare. Ed agevolare l’apprendimento e le doti dei giovani deve essere l’imperativo di ogni governo che miri a far crescere la nazione e far progredire la società. In tal senso non stiamo di sicuro andando nella direzione giusta, visti i continui tagli dei fondi destinati all’istruzione e alla cultura (a cui oggi sono destinati l’1% del Pil, ultimi, anche in questo, in Europa).
Certo, c’è chi ritiene che la sicurezza e la difesa siano più importanti, che costruire nuove autostrade e fantomatici ponti giovi di più alla società, o che la priorità siano le leggi elettorali. I punti di vista possono essere molteplici, ma i dati sulle competenze e le conoscenze degli Italiani parlano chiaro. E chi continua a pensarla così, dovrebbe tornare a studiare. Magari Leopardi gli aprirà gli occhi.

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